venerdì 30 dicembre 2011

The nerd follia

Avete letto Metapop? È un libro che molto difficilmente avrebbe potuto essere stato scritto da un italiano. Perché l'autore, Paul Morley, è un critico musicale piuttosto stimato che non si fa nessun problema a dichiarare che la sua canzone preferita è “Can't Get You Out of My Head” di Kylie Minogue. Cosa che probabilmente nessun critico direbbe, nel nostro paese affetto da un indiesnobismo duro a morire. È in questo senso, più che nel loro suonare inglesi, che i Nerd Follia sono internazionali: perché, pur essendo sostanzialmente rock, esibiscono senza rossori una vena ultrapop che fa sì che certi ritornelli potrebbero stare benissimo nel repertorio di una Kylie o di una, che so, Lady Gaga. “Logout” e “The Weekend” sono, in questo senso, i pezzi dell'album che più si avvicinano a questo ideale di perfezione pop. Cosa che non compromette affatto lo spirito rock del tutto – voce, struttura, corposità di certi arrangiamenti: rock, anche se del tipo che mostra orgogliosamente radici ben salde negli anni ottanta delle tastiere da fantascienza a basso costo, delle voci filtrate e dei ritmi cybertrash. I testi, invece, sono in tutto e per tutto il parto di menti del 2011 (o giù di qui), a cui però non dispiacerebbe ogni tanto fare logout da quest'epoca, per rifugiarsi in un passato meno tecnologico e (forse) più umano, ma anche per imbucarsi a una settimana della moda milanese del 2083.

sabato 19 novembre 2011

L'arte pura e autentica della follia

Da Bergonzoni a Scabia, al via il Festival dei Matti. Una riflessione su queste personalità tra teatro, musica e laboratori incentrata su una considerazione: «La creatività è nella mancanza di regole»

Alessandro Bergonzoni (web)A. Bergonzoni


Nella forma definitiva era enorme e perfetto. Una pancia piena, riempita di foglietti a raccontare i sogni di chi, dentro il manicomio, c'era rimasto fino a quel momento. Le mani non lo avevano toccato, ancora. Ma i sogni l'avevano accompagnato durante la sua costruzione. Ha girato per le vie di Trieste, quel giorno. Immenso, azzurro, come un segnale. Come se il confine tra l'esistente e l'ammesso al vivere comune dovesse essere sottolineato da qualcosa che di per sé strabordava e superava i confini dell'ovvio. Marco Cavallo, l'enorme cavallo azzurro di cartapesta, realizzato nell'ambito del laboratorio condotto nel manicomio di Trieste tra il gennaio e il febbraio del 1973 da Giuliano Scabia, insieme a Vittorio Basaglia (fratello di Franco) e insieme a tutti è stato un simbolo. Il passaggio (anche fisico) tra il «dentro» e il «fuori». Tra lo spazio costretto e le strade. Di fango, pioggia, sterpaglia. Ma pur sempre strade dove il percorso non era prestabilito. In quei mesi tutti furono artisti. Medici, infermieri, inservienti. 

Pennelli alla mano, dita a modulare colla e cartapesta, per dare espressione alla liberazione. In quei mesi tutti furono «matti ». Occhi aperti sulle domande irrisolte, sul nuovo a venire, sui sogni, quelli si concreti, di persone che per vent'anni erano rimasti chiusi lì dentro. Oggi, quarant'anni dopo, il confine non ha più lo stesso spessore. Non è murato, non è impenetrabile. Ma esiste, soprattutto nel sentire comune, soprattutto quando, le sovrastrutture del pensiero hanno raggiunto forma compiuta. Soprattutto tra gli adulti, insomma. E sarà di questo, che, giunto ormai alla sua terza edizione, proverà a parlare il Festival dei Matti, incontri e invenzioni dentro la follia, a Venezia da mercoledì a sabato 19 novembre (www.festivaldeimatti. org). Musica e suoni articolati in colori nello scenario stupendo della Basilica dei Frari (con Claudio Cojaniz alle 21, domani sera), teatro (con Alessandro Bergonzoni, e il suo Urge, giovedì 17 alle 21 al Teatro Goldoni e Giuliano Scabia, prima con Mondi di fuori, venerdì 18 alle 21 al Teatro Goldoni e poi sabato, alle 21 con La luce di dentro. Viva Franco Basaglia, in collaborazione con Claudio Misculin e l'Accademia della follia), ma anche laboratori di cittadinanza, nelle scuole (con la Fondazione Franca e Franco Basaglia, sabato mattina alle 11 al Teatro Goldoni).
Coi bambini che presenteranno i loro Comodini, le loro storie personali, cioè. Quegli spazi «dedicati al sè» che furono, con l'apertura dei manicomi, il primo simbolo della riconquista di sé stessi, per i tanti ospiti. «Quella che porteremo in scena è una riflessione sul cammino cominciato nel 1973 - spiega Scabia - poesia e teatro che entrano in un luogo chiuso, lo vivono, ne vivono le trasformazioni. Il cavallo azzurro era ed è una poesia vivente, creata insieme a 1200 persone. Un'azione che mette in moto l'entusiasmo primordiale. La vita. Accende le spine. Sono persone di una sensibilità straordinaria - dice Scabia - ma non banalizziamo. C'è un'apertura assoluta, in loro. Un'accettazione (e forse una comprensione) dell'esistente, del gesto artistico che corre dieci passi avanti rispetto alla "normalità". È più difficile lavorare con attori professionisti, ad esempio. Anche quelli bravissimi faticano a superare le loro abitudini primordiali, le sovrastrutture sulle quali hanno costruito il loro lavoro. I "matti" no. 

Sembra che si salga di un livello, esperienzialmente parlando. Hanno un approccio con l'arte puro, ma non ingenuo. Colgono il punto e poi, nel superare le loro difficoltà, che gioia. E la società allora, si, diventa ascolto che cura». C'è anche fascino, nella follia. C'è una ragione per cui, nomi ed etichettature, di per sé senza certificazione (chi decide, in fondo, quando e come il confine si sposta?) sembrano allargare i confini della libertà concessa. Ma è un'attrazione, questa, nei confronti della bellezza più o meno carica di dolore, che rischia di dimenticare l'altra faccia. «Tutti siamo attratti dall'idea di essere matti se ciò significa sottrarci a pensieri e comportamenti scontati, alla prigionia delle regole, alla possibilità di far valere la nostra unicità come tale- aveva detto Franco Rotelli alla prima edizione veneziana del Festival - nessuno però è disposto a pagare il dazio che invece paga, e smisuratamente, chi non sceglie di essere "il matto" ma lo diventa senza sceglierlo, diventando poi prigioniero delle istituzioni». 
Alice D'Este

sabato 3 settembre 2011

Alda Merini Manicomio Perchè: poesia e folli


Spesso si è soliti commemorare i defunti nel giorno della loro morte, questa volta in onore alla sua grandezza vorremmo ricordare la poetessa di Milano il giorno della sua nascita: il 21 Marzo 1931.Quando si tratta di personalità complesse ed enigmatiche come questa, il giorno della loro morte non esiste perchè, i posteri che hanno amato e ameranno le sue poesie la renderanno sempre viva… magari concedendole una nuova vita, fatta di lodi e riconoscenza..non di turbamenti profondi e sofferenze come lo è stata la sua.
Alda Merini dopo anni in manicomio scrisse: “Anche la follia merita i suoi applausi“,  questa citazione è densa di carico emotivo in quanto anche lei ha vissuto in una società in cui è la “normalità” ad essere condannata e l’isterismo moderno decantato come “un buon stile di vita” o peggio ancora : una persona realizzata!
Vorremmo ricordare questa autrice affinchè la sua drammatica vitalità e la sua irriverente ironia possano far riflettere su problematiche sociali ancora troppo poco discusse, probabilmente perchè portano con se la necessità di approfondire l’inumanità dell’ essere umano… e non è sempre gradito l’appellativo inumano soprattutto a chi crede che una gentile formalità possa esimerlo da questa categorizzazione!
La sua esperienza all’interno dei manicomi nel periodo degli anni 70, l’ha vista dapprima succube della sua stessa malattia.. e successivamente essendovi entrata volontariamente ha voluto sperimentare coscientemente il modo con cui il quel periodo le sofferenze di un folle venivano trattate con farmaci il cui unico effetto era la spersonalizzazione del soggetto.
Per fortuna oggi questi rimedi sono stati di gran lunga superati.. ma siamo proprio sicuri che adesso questi luoghi angusti per l’espressione libera del soggetto non si stiano manifestando sempre più gravosamente e incoscientemente nell’assoggettamento dell’uomo alle mere dinamiche ecomiche tralasciando ormai l’aspetto qualitativo della vita?
« Ho la sensazione di durare troppo, di non riuscire a spegnermi: come tutti i vecchi le mie radici stentano a mollare la terra. Ma del resto dico spesso a tutti che quella croce senza giustizia che è stato il mio manicomio non ha fatto che rivelarmi la grande potenza della vita. »
Alda Merini Manicomio Perchè: poesia e follia

giovedì 1 settembre 2011

La Follia… estrema godezza dei sensi


Gragnano - Quest’anno la festa della pasta ha scelto un tema di grande interesse, da sempre oggetto di studio e riflessioni da parte di studiosi dell’arte e della letteratura, La Follia. L’immagine della locandina della festa si sta diffondendo a macchia d’olio sulle diverse piattaforme virtuali e non solo, attraverso una forma di comunicazione individuata dalla E-COMUNICA, agenzia di comunicazione, che si sta occupando dell’immagine dell’evento. L’intuizione è il passaparola su Facebook “Cambiate per una settimana, la vostra foto, con quella de La Follia della Pasta sarete più folli e gustosi!”. In poche ore erano centinaia le persone che avevano cambiato la propria foto del profilo con la locandina dell’evento. Ma la cosa più sorprendente che tutti incitavano al cambio della foto per diffondere l’evento. L’originale idea ha riscosso notevole successo e come un tam tam, senza sosta, continua il suo viaggio virtuale sulle bacheche degli iscritti a Facebook. Ma che cosa ha spinto autori del passato e anche del presente, (ricordiamo lo stesso Simone Cristiccchi ospite di una delle tre serate), a parlare e a scrivere della follia? Forse la risposta la troviamo in Pirandello quando dice”Solo la follia o la a-normalità assoluta, e incomprensibile per la massa, permette alle persone il contatto vero con la natura e la possibilità di scoprire che rifiutando il mondo si può scoprire se stessi. Ma questi contatti sono solo momenti passeggeri, spesso irripetibili perché troppo forte il legame con le norme della società”. Ad accompagnare le tre serate, la buona cucina, il buon vino, musica, spettacoli e ospiti internazionali. A coinvolgere ed emozionare i più piccoli, laboratori organizzati appositamente per loro. I ragazzi di GRAGNANO GIOVANE offriranno come sempre la loro cortesia, il loro aiuto e la loro simpatia a tutti gli ospiti.

lunedì 25 luglio 2011

Bimbi ariani di Norvegia
La follia di Breivik e il progetto nazista Lebensborn.
di Pierluigi Milanese


Le unioni tra donne norvegesi e militari tedeschi.
Non potevano che partire da un ariano puro il riscatto e la crociata nei confronti di un mondo pericolosamente consegnato all’Islam e alla perdita dei valori cristiani, alla promiscuità sessuale, al capitalismo globalizzato, al marxjsmo. Un mondo che le varie forze politiche in campo (comprese quelle che teoricamente dovrebbero battersi contro questi disvalori) non sanno governare.
E così il 32enne e biondo norvegese Anders Behring Breivik ha rotto gli indugi, sicuro (questo si insinua nel suo lunghissimo manifesto di 1.500 pagine consegnato al web) che altri – probabilmente una sorta di élite di “patrioti” sparpagliata nei cinque continenti – avrebbe seguito il suo esempio e colto il segnale per dare finalmente vita alla controffensiva.
LA FISSA DELLA RAZZA ARIANA. Non possiamo sapere, allo stato dei fatti, quanto ci sia di razionale e quanto di psicopatico nel ragionamento e nel gesto di Breivik, ma i suoi molteplici riferimenti al tema della razza ariana (oltre a rimandare alle ben note e altrettanto folli imprese naziste) rivelano un retroterra, o un substrato se si vuole, particolarmente fecondo di miti e leggende, ma anche vicende storiche, molto “norvegesi”. Che nulla hanno a che fare con il folle gesto di Breivik, sia chiaro, né possono inficiare l’immagine di solida democrazia che la Norvegia e le sue istituzioni sociali e politiche hanno sin qui saputo rappresentare. Ma che, non per questo, vanno rimosse.

La Norvegia e la sua lunga tradizione di destra

Un manifesto propagandistico del progetto Sorgente di vita.
Sarebbe troppo facile ricordare come la Norvegia, tra le due Guerre, rappresentò per antonomasia il ruolo di Paese collaborazionista del Reich nazista, grazie al famoso governo fantoccio di Quisling (convinto assertore della necessità che in Europa si stabilisse un Nuovo Ordine sotto il comando tedesco).
E sarebbe altrettanto facile (ma anche un po’ lungo, qui) stabilire i molti collegamenti tra la Norvegia ariana e l’immaginario esoterico nazista che, nella sua forsennata ricerca delle origini, pose proprio la Norvegia al crocevia di una serie di terre mitiche e di elezione della razza ariana primigenia.
Tanto che tra i fiordi i cosiddetti “archeologi” di Heinrich Himmler (cioè i componenti dell’Ahnenerbe, la «Società di ricerca dell’eredità ancestrale» fondata nel 1935 con il compito di svolgere ricerche sulla storia antropologica e culturale della razza ariana germanica e ampiamente immortalata nella saga di Indiana Jones ) compirono più di una spedizione.
IL PROGETTO LEBENSBORN. Ma l’apoteosi dell’arianità norvegese si disvela in una vicenda a lungo dimenticata, e solo abbastanza di recente tornata all’attenzione dell’opinione pubblica grazie a un libro scritto nel 2004 da una protagonista, Gisela Heidenreich. La vicenda è quella della cosiddetta 'Lebensborn' (Sorgente di vita), progetto segreto anch’esso ideato nel 1936 da Himmler per aumentare il tasso di “arianità” della popolazione del Reich attraverso l'unione pianificata tra tedeschi e donne straniere 'perfette esemplari della razza ariana'. E proprio le norvegesi, ariane per definizione, fecero la parte del leone nel progetto.
DAI 10 AI 12 MILA BAMBINI ARIANI. Dopo l’occupazione della Norvegia, circa 400 mila tedeschi – con lo slogan “dopo la vittoria sul campo, la vittoria nella culla” furono “incoraggiati” a figliare con donne norvegesi, alle quali venivano garantiti un sostegno finanziario e un trattamento “privilegiato”. Si calcola che tra il 1940 e il 1945, nacquero dai 10 ai 12 mila bambini “ariani”, la metà dei quali ospitati in istituti speciali preposti ad allevarli e dove ricevevano persino un'alimentazione particolare e venivano educati alla mentalità nazista. Dal 1941 in poi, divenuti cittadini tedeschi, i bambini furono trasferiti in Germania, portando in dote una massiccia dose di purezza nordica.
LE DONNE NEL MIRINO. Con la fine della Guerra, migliaia di documenti riguardanti i 'Lebensborn' furono distrutti e si persero le tracce dei legami tra i bambini e le loro famiglie di origine. Ma vittime del folle progetto furono innanzitutto le donne norvegesi, inserite nelle liste pubbliche come traditrici della patria, spesso abbandonate dalle famiglie, senza lavoro, e persino vittime di violente ritorsioni. Lo stesso governo, sostenuto dall’opinione pubblica, attuerà una legislazione punitiva esemplare, privando le mamme dei “Lebensborn Kinder” della cittadinanza norvegese. Non andò meglio ai bambini stessi rimasti in Norvegia, dove subirono angherie e soprusi, mentre i bambini trasferiti in Germania non rivedranno mai più le loro famiglie.

Il governo norvegese accusato di violazione dei diritti umani

Solo nel marzo 2007 il tema tornò all’attenzione delle istituzioni, quando 154 norvegesi, quattro svedesi e un tedesco presentarono ricorso alla Corte europea dei diritti dell'uomo contro il governo norvegese accusandolo di violazione dei diritti umani, per non averli tutelati dopo la guerra e, anzi, averli discriminati.
TRA I LEBENSBORN FRIDA DEGLI ABBA. Chiesero quindi 250 mila euro come risarcimento per i danni subiti. E mentre si attende il pronunciamento della Corte, molto scalpore fa il coming out di una celebre “Lebensborn”, Anni-Frid Lyngstad, meglio conosciuta come Frida, la cantante degli Abba cresciuta in Svezia dove sua madre, che l'aveva concepita durante una relazione con un soldato della Wehrmacht, era fuggita all'indomani della Liberazione.
Chissà, il folle gesto dell’ariano Breivik potrebbe anche riportare l’attenzione su queste vicende.
Lunedì, 25 Luglio 2011

lunedì 4 aprile 2011

BUKOWSKY BLUES, CANZONI E ORDINARIA FOLLIA



Dal 6 al 12 aprile al Teatro Libero di Milano, Corrado Trabuio e Antonio Carli portano in scena un recital ispirato ad uno degli ultimi testimoni della Beat Generation


Lo stile è una risposta a tutto,
un modo nuovo per affrontare la noia e le cose pericolose fare una cosa noiosa con stile è meglio che fare una cosa pericolosa senza stile
fare una cosa pericolosa con stile è quello che io chiamo arte.

(Charles Bukowsky)


Con questa frase comincia il più grande film sull’autore più “maledetto” della Beat generation, molto discusso, ma senz’altro acuto narratore di una vita che ha scelto di osservare da un punto di vista “straniato” e per questo più lucido e spietato.
Bukowsky picchia duro: saggio, ironico e dissacrante, illustra la natura umana dal basso, e perciò senza moralismi, ma con grande senso morale.

Le poesie, o meglio i pensieri alla rinfusa di questa raccolta sono contrappuntati da musiche e canzoni, che affermano i pensieri del grande Bukowsky, ora duri, ora malinconici e soli, ora divertiti e ironici, così che certi artisti, pur molto diversi, riescono a convergere sui grandi temi.

Corrado Trabuio, chitarra e violino, e Antonio Carli, chitarra e voci, danno vita, con grande passione ed eleganza, ad uno spettacolo passionale e suggestivo. Un recital dove le parole si fondono alle musiche in una combinazione divertente e assolutamente attuale in grado di ricreare piacevoli atmosfere e le citazioni di grandi artisti quali De Andrè, Fossati, Dalla o Gaber per ritrovare in essi l'essenza di uno degli ultimi autorevoli testimoni della Beat Generation.

mercoledì 9 marzo 2011

Elogio della Follia

Nell’anno 2011 ricorre il cinquecentesimo anniversario di un libro molto stimolante e, di certo, ancora attualissimo: Elogio della Follia, scritto da un grande del Cinquecento: Erasmo da Rotterdam. Tra altri, all’interno del libro spicca un passo che suona profetico:

“Che c'è infatti di più sciocco di un candidato che lusinga il popolo in tono supplichevole, che compra i voti, che va in cerca degli applausi di tanti stolti, che si compiace delle acclamazioni, che si fa portare in giro in trionfo, come una statua da mostrare al popolo, che fa collocare nel foro il proprio simulacro di bronzo? Aggiungi la sfilza dei nomi e dei soprannomi, gli onori tributati a un uomo insignificante, il fatto che si dà il caso di tiranni scelleratissimi elevati con pubbliche cerimonie alla gloria dell'Olimpo. Sono autentiche manifestazioni di follia.”

Leggendo questo passo il pensiero mi è andato all’attuale Presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica italiana, Silvio Berlusconi, alla sua sciocchezza, le sue lusinghe supplichevoli, le boriose intemerate, e gli acquisti di elettori, e di eletti, la ricerca degli applausi dei furbi e degli stolti, i compiacimenti delle acclamazioni dei cervelli meccanici, i giri in trionfo delle sue televisioni private, e le telefonate complulsive alle radio e televisioni pubbliche, il suo irresistibile fascino a pagamento, la sua scelleratezza ninfomane, la sua insignificanza culturale - in somma: la sua follia.

Elogio della follia è un saggio scritto da Erasmo da Rotterdam nel 1511.
Il lavoro fu redatto, compilato e completato originariamente nel giro di una settimana mentre soggiornava con Tommaso Moro nella residenza di quest'ultimo a Bucklersbury. Elogio della follia è considerato uno dei lavori letterari più influenti della civiltà occidentale e il catalizzatore della Riforma protestante.
Inizia con un encomio in forma satirica alla maniera del satirico greco Luciano di Samosata, i cui lavori erano stati recentemente tradotti da Erasmo e Tommaso in latino, un pezzo di sciocchezza virtuosa; acquisisce dunque un tono più scuro in una serie di orazioni, quando la Follia predica di auto-ingannarsi e a diventare matti e muove verso un esame critico dei più ma superstiziosi abusi della dottrina cattolica e di alcune pratiche corrotte della Chiesa cattolica romana - alla quale per altro Erasmo era stato sempre fedele - e la follia dei maestri (incluso Erasmo).
Erasmo era ritornato recentemente deluso da Roma, dove aveva rifiutato di essere promosso gerarchicamente nella curia papale, e la Follia si prende lentamente la voce di rimprovero dello stesso Erasmo. Il saggio finisce con una schietta e commovente dichiarazione sui veri ideali cristiani.
Erasmo era un buon amico di Thomas More — un altro fedele cattolico romano e denigratore di Martin Lutero, con il quale condivideva una passione per l'umorismo asciutto ed altre occupazioni intellettuali. Il titolo "Moriae Encomium" può essere anche letto con il significato "In elogio di Moro". I doppi o tripli significati si trovano un po' ovunque nel testo.
Il saggio è pieno di allusioni classiche recapitato con uno stile classico dei dotti umanisti del Rinascimento.
La Follia sfila come uno degli dei, figlia di Plutos e della Freschezza e allevata dall'ignoranza e dall'ubriachezza, i cui fedeli compagni includono Philautia (Vanità), Kolakia (Adulazione), Lethe (Dimenticanza), Misoponia (Accidia), Hedone (Piacere), Anoia (Demenza), Tryphe (Licensiosità), Komos (Intemperanza) ed Eegretos Hypnos (sonno mortale).
Moriae Encomium diventò molto popolare, per lo stupore ed a volte sgomento di Erasmo stesso. Il papa Leone X pensò che fosse buffo. Prima della morte di Erasmo era stato ristampato più volte e tradotto in Francese e Tedesco. Subito dopo ne seguì pure un'edizione inglese.
Influenzò l'insegnamento della retorica durante la fine del sedicesimo secolo, e l'arte dell'adossografia o elogio di soggetti senza valore divenne un esercizio popolare nelle scuole di Grammatica elisabettiane: si veda Charles O. McDonald, La Retorica della Tragedia (Amherst, 1966). La prima edizione non presenta illustrazioni. Una delle copie fu illustrata con disegni di Hans Holbein il Vecchio. Queste sono le più famose illustrazione di Elogio della Follia.
Per Giovanni Papini e altri, Erasmo si sarebbe ispirato per la sua opera al lavoro di un umanista italiano, il De triumpho stultitiae di Faustino Perisauli, opera ripubblicata presso Il Fauno editore, Firenze, 1963, con studio introduttivo di Alberto Viviani e note di Giannino Fabbri.

domenica 27 febbraio 2011

Elogio della follia e della bellezza

Elogio della follia e della bellezza
A Verona l'incontro, “Percorsi di relazione” con il filosofo e psicoanalista Umberto Galimberti, professore presso l' Università Ca' Foscari di Venezia
Sara Rassech
Si è tenuta, presso l'aula magna (Polo Zanotto) dell'Università di Verona, la conferenza promossa dall'associazione “IDEM - Percorsi di relazione”, Elogio della follia e della bellezza, il cui protagonista è stato il filosofo Umberto Galimberti.

All'incontro hanno partecipato, introducendo e dialogando, Alcide Marchioro, presidente dell'associazione ed Elena Zanoni, dottoranda dell'Università di Verona. 

Non è mancato l'accompagnamento musicale: Paolo Pasoli alla viola e Valentina Giovannoli al violino.

L'aula magna dell'Università era gremita di spettatori che attendevano trepidanti l'arrivo di uno tra i più influenti filosofi contemporanei. Il Professor Galimberti esordisce approfondendo la figura del controverso profeta del nostro tempo Friedrich Nietzsche, il quale ne La gaia scienza [Die fröhliche Wissenschaft] affida ad un folle il compito di annunciare ai mercanti: "Dio è morto!". Il filosofo tedesco sosteneva che il suo pensiero sarebbe stato compreso 50 anni dopo. Infatti, siamo approdati all'era nichilista in cui il mondo contemporaneo è comprensibilissimo senza Dio, ma non senza la tecnica o il denaro. E' avvenuta la preannunciata transvalutazione dei valori. Galimberti sostiene che i valori siano dei semplici coefficienti sociali e le regole, imposte dalla ragione, consentano all'uomo di vivere in modo comunitario. La follia, invece, è generatrice di pensiero, poiché pregna di fervore creativo.

Il nichilismo, affermato da Nietzsche, non è altro che lo scorrere del tempo senza senso. "I giovani - sottolinea Galimberti - vivono di notte, forse perché di giorno non vengono presi in considerazione. Il lavoro è precario, molte famiglie sono distrutte, a molti ragazzi non resta che la droga come anestetico nei confronti della realtà priva di significato e del futuro incerto". Visione drammatica questa, ma il Professore ha esortato i giovani presenti a non demordere, ma a lottare per realizzare il proprio futuro. 

Il filosofo e psicoanalista introduce il pensiero nietzscheano e il tema della bellezza con un breve excursus sulla grecità. Nietzsche ne La nascita della tragedia esalta il mondo greco per la concezione tragica dell'esistenza. L'uomo tragico sa vivere la vita così com'è, senza attendere alcuna dimensione post mortem e accettando serenamente il dolore come parte integrante della vita. "Ma su tutto prevale la concezione dell'ottimismo greco, l'idea che ogni contraddizione ed ogni dolore non siano l'ultima parola dell'esistenza e che l'uomo possa ritrovare la via della pacificazione con le forze della natura" (M. Trombino, La filosofia occidentale e i suoi problemi 3, Poseidonia, Bologna, 1993, cit. p. 272). I greci sono riusciti a far coesistere le due forze contrapposte che agiscono nell'uomo: "il dionisiaco" e "l'appolineo". Lo spirito, rappresentato da Dioniso, è l'impulso alla vita, alla passione, vissuto senza limiti, che si esprime nel movimento della danza e della musica. Lo spirito rappresentato da Apollo, invece, è ordine, staticità dell'immagine "bella", per questo viene simboleggiato al meglio dall'opera d'arte. Il bello diviene espressione dell'accordo tra uomo e natura.  La bellezza, essendo impersonata da Apollo e non, come erroneamente si crede, da Afrodite, dea della sensualità, è armonia ed equilibrio delle forme. Da qui il termine attuale "cosmesi", ovvero esser in armonia con il cosmo.

"L'uomo contemporaneo  - afferma Galimberti - non è né dionisiaco né apollineo, bensì egoista, corrotto e volto solo al bieco affarismo".

Nietzsche, come Schopenauer, ritiene che la vita sia male e che sarebbe stato meglio per l'uomo non esser mai nato. Tuttavia, la natura spinge a perpetuare la vita con la procreazione.

La donna percepisce più dell'uomo questo dualismo, poiché lo sperimenta sul proprio corpo. Da un lato vi è l'affermazione del sé, la realizzazione di se stessa, e dall'altro l'evoluzione del proprio corpo che reclama la conservazione della specie con la conseguente negazione di una parte della propria individualità.

Per questo - conclude Galimberti - le donne sono più intelligenti degli uomini guadagnandosi, così, un fragoroso applauso dal vasto pubblico femminile e strappando qualche sorriso sardonico alla platea maschile.

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